PASQUALE CELOMMI

In un concerto artistico così complesso come quello italiano, il verismo pittorico è stato per molti anni considerato per certi versi come una cornice ai movimenti ed alle scuole ritenute più significanti ed innovative, come l’esperienza dei macchiaioli e quella dei pittori meridionali che si ritrovarono a Posillipo per dipingere en plein air e rinnovare così le loro tavolozze. Negli ultimi anni, però, in virtù di nuovi stimoli alla ricerca sul nostro periodo post-risorgimentale, dovuti anche al centocinquantesimo anniversario dell’Unità nazionale, si è indagato in maniera più approfondita su quello che è stato un linguaggio fondamentale per i primi decenni della nostra Italia, che si è raccontata attraverso le immagini, di regione in regione, contribuendo a gettare le basi per la nostra identità culturale. Così si è andato delineando il profilo di un’arte molto variegata e moderna, fatta di personalità diverse di artisti vicini alle nuove istanze pittoriche, spesso in relazione e continuo confronto tra loro. Così anche in Abruzzo, fatte salve le eccezionalità di Francesco Paolo Michetti, dei fratelli Palizzi e di Teofilo Patini, vi è stato un rinnovato interesse a ricostruire l’ambito culturale in cui questi si sono mossi e ad approfondire la conoscenza, legata purtroppo, fino a quel momento, ad uno studio folkloristico e retorico, di altre figure importanti in questo contesto artistico, ognuna delle quali trova un suo proprio linguaggio in quel delicato passaggio tra la tradizione di fine ottocento e le nuove istanze del primissimo Novecento.

 

Tra queste spicca senza dubbio la figura artistica del rosetano Pasquale Celommi, il “pittore della luce”, che, partendo dai dettami del più stretto verismo sociale d’impronta patiniana, ha indirizzato poi la sua ricerca verso una narrazione più libera e personale del vivere quotidiano, introducendo nelle sue tele anche un’attenzione particolare al paesaggio, ai colori della natura e soprattutto agli effetti di luce che fanno della sua pittura l’anello di congiunzione tra la realtà artistica abruzzese e la raffinata Scuola di Resina.

 

Pasquale Celommi nasce a Montepagano (oggi frazione di Roseto degli Abruzzi) il 6 gennaio 1851 da una famiglia di semplici artigiani e pescatori.

 

Precoce nel disegno, riesce a compiere i primi studi grazie all’appoggio di un facoltoso possidente della zona, Camillo Mezzopreti, fino a quando nel 1873 vince il concorso del pensionato artistico che gli consente di frequentare la Scuola Libera del Nudo a Firenze, sotto l’egida del maestro Antonio Ciseri. L’esperienza fiorentina alleggerisce leggermente la corposità del suo colore e soprattutto definisce l’importanza della linea, secondo la lezione del maestro ticinese. Nonostante gli studi d’Accademia si concentrino sui nudi e sui soggetti sacri, non si affievolisce in Pasquale l’interesse per i soggetti abruzzesi, per i quali anzi commissiona spesso delle fotografie e con i quali si fa notare nei salotti dell’alta borghesia del capoluogo toscano. È così che ha modo si conoscere Giuseppina Giusti, nipote del poeta Giuseppe, che sposa nel 1880.

 

Importante inoltre in questi anni la partecipazione di Pasquale ad alcune mostre, come l’Esposizione Nazionale di Firenze del 1878 – alla quale il rosetano presenta una odalisca, soggetto che ripeterà più volte nel corso degli anni. Queste mostre, di rilievo internazionale, hanno per Celommi una valenza soprattutto formativa, poiché ha modo di osservare i lavori dei più importanti artisti dell’epoca, spesso distanti tra loro, ed assorbirne l’esempio. Evidente nelle sue opere future l’impatto che hanno su di lui le opere dello scultore Adriano Cecioni, vicino al movimento dei macchiaioli, di cui Celommi farà propria l’attenzione per la plasticità del gesto, soprattutto nei soggetti infantili.

 

Nel 1881, dopo la nascita del suo primogenito Raffaello, Pasquale torna definitivamente in Abruzzo dove comincia a lavorare  per le famiglie più in vista, alle richieste di ritratti e di scene familiari. Seppure strettamente legati alla committenza, i ritratti hanno una notevole importanza nel corpus delle opere di Celommi, sia come elemento di studio fondamentale nella composizione delle opere di diversa ispirazione, ma anche  come produzione a sé stante di cui – non volendo includere i più noti L’Operaio Politico e Il Ciabattino –  possiamo riconoscere forse nel Ritratto di Ragazza (1910c), che Celommi realizza toccato dalla morte di una giovane allieva dell’Istituto Magistrale di Teramo (e al quale lo ha poi donato), il più raffinato e toccante esempio.

 

A questi lavori Celommi affianca la sua ricerca pittorica e la produzione più strettamente legata al suo personale sentire artistico; sono infatti questi ultimi decenni dell’Ottocento quelli in cui il suo lavoro  è indirizzato pienamente verso il  verismo sociale e la sua attenzione alle ricerche di Teofilo Patini (con il quale tiene anche una corrispondenza, andata purtroppo perduta durante il secondo conflitto mondiale), di cui però il pittore rosetano non tradurrà mai nelle sue opere la volontà più strettamente didascalica, quella impronta tragica propria delle opere di Patini.

 

Chiaro esempio di questo filone sono in particolar modo due opere presentate da Celommi nel 1888 alla II Esposizione Operaia di Teramo: La Pescivendola e L’Operaio Politico (o La Vedetta), entrambe del 1888.

 

La prima tela è il ritratto di una vecchia popolana intenta a richiamare l’attenzione sul pesce da vendere. Nel viso segnato dalla fatica e dall’età, e nello sguardo amaro della donna, si delinea l’intera realtà del personaggio, in maniera naturale, senza accenti o sottolineature.  La seconda, sicuramente più nota, è l’immagine di un uomo avanti con l’età, un popolano definito come operaio nel titolo e dalla connotazione politica del quotidiano che regge tra le mani, intento a leggere con difficoltà la prima pagina del giornale, come se avesse imparato da poco a farlo. Quest’opera, oggi conservata nella Pinacoteca Civica di Teramo, è senza dubbio uno dei più alti esempi della produzione ottocentesca di Celommi, in cui egli raggiunge la piena maturità nella ricerca psicologica e nella resa emotiva del personaggio.

 

Quello che però è considerato a ragione il capolavoro di Celommi è una tela di qualche anno più tardi, Il Ciabattino, che il pittore rosetano presenta alla LXVI Esposizione di Belle Arti di Roma nel 1895. Il soggetto, comune nella produzione ottocentesca, viene messo da Celommi in primo piano, su uno sfondo scuro privo di ambientazione, chino sul tavolo da lavoro;  l’abilità dell’artigiano e la cura che mette in ogni gesto, diventano soggetto indiscusso della composizione, in cui la narrazione diventa contemplazione di un mondo caparbio e silenzioso, sempre fedele a sé stesso e lontano in egual misura dalle sirene della fabbrica come dal chiacchiericcio dei “bagni”  estivi, villeggiatura privilegiata delle famiglie benestanti.

 

Di questo stesso periodo, esaurita forse la ricerca in senso propriamente verista, è la svolta della pittura di Celommi verso la ricerca luministica, che lo porterà poi agli inizi del Novecento alla composizione delle sue note marine.

 

Fondamentale in questo senso sono l’incontro con Vincenzo Bindi, collezionista appassionato delle opere degli autori meridionali, della Scuola di Posillipo soprattutto, e l’inizio della collaborazione con i galleristi D’Atri che offrono a Celommi la possibilità di lavorare per una clientela internazionale, più indirizzata ad opere dal colore più leggero e a scene improntate alla ricerca en plein air.

 

La tavolozza di Celommi, quindi, si arricchisce di colori più delicati, la linea si fa più tenue e scompaiono quasi del tutto gli interni e i ritratti a mezzo busto. Il mare diventa l’ambientazione prediletta delle sue composizioni, che narrano le attività quotidiane dei pescatori e delle loro famiglie.  Tutte sono caratterizzate dallo studio del fattore luministico: ogni forma, ogni materia, ogni contorno si delinea in virtù della luce che lo tocca e lo rende alla vista. L’acqua del mare è un insieme di riflessi, la spiaggia e le barche a riva cambiano di intensità a seconda della luce che li tocca, e il bagnasciuga diventa un pretesto, quasi un vezzo dell’artista, per soffermarsi sulla complessità dei giochi di colori che la luce crea su quella sottile linea d’acqua che si lascia piano piano assorbire dalla materia più pesante e scura della sabbia. Opere come Partenza della Lancetta (1910) o Ritorno dalla pesca (1910ca), sono tra i più alti esempi di questa “nuova maniera” del pittore rosetano. Il primo è un’alba sul mare, con una lancetta messa in mare dagli uomini, sotto lo sguardo attento di una giovane sposa. Il secondo invece è un caldo tramonto in cui si muovono diverse figure affaccendate nelle attività che seguono il rientro. Entrambe le scene sono impreziosite dai giochi di luce ed ombre, che formano la materia e dilatano lo spazio, rendendo al nostro sguardo un’immagine piena e tangibile della natura e dell’umanità che la abita e ci convive.

 

È questo il momento in cui con Pasquale comincia a lavorare Raffaello, per far fronte alle numerose richieste e completare la sua formazione. E Raffaello diventerà il primo erede dell’arte paterna, continuando la sua tradizione quando Pasquale morirà il 9 agosto 1928.